La campana ovvero Lo Zen e l’arte della forchetta

“Non dovresti mirare all’obbiettivo ma a te stesso. Se lo fai così, colpirai te stesso, il Buddha, e l’obbiettivo tutti insieme.”

Eugen Herrigel, Lo Zen e l’arte dell’arcere

Nella tradizione Zen di Thich Nhat Hanh si usa la campana per cominciare una sessione di meditazione seduta. La tecnica di suonare non è proprio quella di uno strumento musicale qualsiasi – o forse dipende dal musicista. Prima di suonare, si prende un respiro e si porta l’attenzione alla campana, alla bacchetta che ha in mano, a se stesso. Non c’è nessun altro luogo dove dovrebbe stare e può semplicemente stare lì. Tra un suono e un altro si prendono tre respiri e si posa la bacchetta.

Finché non ho provato questa tecnica non avevo capito perché posare la bacchetta. Tre respiri che saranno, qualche secondo? Non sarebbe meglio tenere la bacchetta lì pronta? Invece no. Tenendo la bacchetta pronta stai tenendo te stesso pronto, che vuol dire che stai già nel futuro, aspettando la fine dei tre respiri e perdendo il suono del momento, il respiro del momento, te stesso del momento. Appoggi la bacchetta e torni alla realtà, che non è tanto male. Veramente è un piccolo gesto che cambia tutto. Come direbbero i maestri Zen, non stai suonando per l’obbiettivo di suonare, suoni per essere presente suonando.

Lo stesso principio vale ugualmente in cucina. Stai lì al tavolo, con un piatto di fettuccine o di risotto davanti agli occhi e la forchetta in mano. Tra un morso e un altro, cosa fai con la forchetta mentre mastichi? La tieni lì, sopra il piatto pronta per il prossimo morso? Se siete come me l’avete già appesantito di cibo quando la bocca è ancora piena della forchettata precedente. Mangi, mastichi, la forchetta fa avanti e dietro, ma la forchetta e la mente stanno sempre un passo avanti e alla fine hai perso tutto il carciofo. Che peccato.

Ho posato la forchetta e ho iniziato a mangiare davero davero, forse per la prima volta. Senza che io lo sapessi una grande parte della mia mente era impegnata nel tenere la forchetta pronta, anche se era un azione ormai involontario. Con il braccio giù e la forchetta posata per tavolo, improvvisamente mi trovo libero di gustare il cibo, di apprezzare meglio l’ambiente e la compagnia. Tutto diventa molto più vivido e allo stesso momento svaniscono le preoccupazioni e i pensieri che normalmente fanno da contorno. Mangiare per essere presente mangiando. Mira a te stesso e colpisci te stesso, ma anche i sapori, gli odori e i colori, che fin’ora perdevi.

Buon appetito!

Life is worth living

Sulla porta della mia casa c’è un adesivo da paraurti che ricevetti due mesi fa nella Palestina. E’ scritto in arabo e in inglese: “Life is worth living”, che può essere tradotto “La vita è degna di essere vissuta”.

Lo misi sulla porta perché mi piace l’idea ma non avevo capito fino in fondo la natura radicale della frase fino a ieri, quando un operaio palestinese che lavorava sulla casa del vicino ha cominciato una conversazione. L’uomo aveva una cinquantina d’anni. In generale l’età media degli operai qui è più grande che in Italia, un dato che riflette due aspetti della realtà: la difficoltà economica nella Palestina e il fatto che è assai più probabile che un attentato viene compiuto da un maschio più giovane; perciò la storia tragica dei posti di blocco. L’uomo chiedeva con entusiasmo da dove ho avuto l’adesivo. Ha chiesto se io sapessi chi l’ha scritto ed era molto felice di raccontarmi chi.

In molte parti del mondo “la vita è degna di essere vissuta” potrebbe essere uno slogan contro la pena di morte, contro l’aborto o di un’altra causa ancora. Ma scritto in arabo e distribuito da palestinesi in Palestina ha un altro senso. Intrappolati fra l’occupazione israeliana da una parte e l’indottrinamento integralista (Hamas) o nazionalista (Fatah) dall’altra, il messaggio che i giovani ricevono da tutte e due le parti è che la loro vita non è degna – o per la mancanza di rispetto verso i loro diritti civili e umani nei posti di blocco, le distruzione delle case e l’incarcerazione e detenzione di 10.000 palestinesi in Israele, o per la glorificazione dei martiri e l’insistenza su tutti i mezzi di comunicazione che solo morendo (a volte morendo mentre uccide il nemico, soldato o cittadino che sia) la vita ha un significato. Questi messaggi, diretti e indiretti, non possono che avere un impatto forte specialmente sui giovani. E quindi “la vita è degna di essere vissuta” non è né una frase new-age leggera né una chiamata a una causa per la quale lottare ma qualcosa di molto più coraggiosa.

La vita, il nostro essere in vita, in questo momento, è un miracolo. Non abbiamo fatto niente per meritare la capacità di camminare su due gambe, di guardare un bel panorama o di parlare con un amico. Lasciare che un altro ci convinca del contrario, o che ci distragga da questo regalo, è forse l’ingiustizia più grave che ci sia. Mi emoziona il coraggio di questa frase e dei giovani che me l’hanno regalata. Allo stesso tempo rifletto su i tanti momenti, anche in Italia, che di fronte a cose molto più piccole e meno gravi, mi perdo nella dimenticanza. Se questi ragazzi, nella Palestina d’oggi, possono fare questo sforzo, forse lo possiamo fare anche noi?

Li carciofi

Non sapevo fare nulla: facevo il romano, e fare il romano era la mia passione. A Nizza, Parigi, all’Avana, al Messico, a New York, Buenos Aires, a Rio de Janeiro e nell’interno del Brasile, parlavo romano; cantavo li stornelli che nisuno, magari, li capiva, ma tutti li applaudivano. Un bel fenomeno. Allora mi convinsi che nascere romano era una concessione speciale di Nostro Signore Gesù Cristo.
– Ettore Petrolini

Non è solo il mio coinquilino che non sa la differenza tra il carciofo alla romana e il carciofo alla giudia. Anche su feisbuc pare che alcune persone di mia conoscenza (romani, figli di romani o da anni a Roma) hanno qualche dubbio. Le tradizioni sono così importanti, ci legano al nostro passato e ai nostri antenati ed è un peccato perderle… specialmente quando sono così buone! Riassumiamo la differenza così: i carciofi alla romana sono morbidi e i carciofi alla giudia sono croccanti.

I carciofi alla romana (la ricetta di Liliana, nata prima della 2a guerra mondiale a vicolo dei cinque):

  1. Pulisci i carciofi togliendo le foglie dure esterne e poi i peli interni.
  2. Passare un limone intorno a ogni carciofo pulito
  3. Infila un pezzetto d’aglio e un po’ di mentuccia dentro ognuno
  4. Cuocere i carciofi, insieme a qualche patata tagliata, in una pentola a pressione con un po’ di olio buono e un po’ di acqua.
  5. Svieni, vieni o fai quello che te pare. Ma lasciati perdere nelle onde di sapore e goditi questa meraviglia.

I carciofi alla giudia (la ricetta di Bar, nato dopo la guerra di Vietnam nello stato di Illinois)

  1. Vai a via del Portico d’Ottavia 21 e siediti.
  2. Di’: “Un carciofo alla giudia per favore”
  3. Quando ti porta qualcosa che assomiglia una pigna sul piatto, attaccala con la forchetta e il cortello. Croccante, salato, strafritto: ammazza che bbontà!

Generazione dopo generazione dei nostri avi hanno sperimentato, perfezionato e goduto queste tradizioni, se non le conosciamo e impariamo lasceremo ai nostri figli solo la McInsalata e quattro-salti-di-un-animale-non-identificabile-in-padella. Facciamo un patto? Magnate un bel carciofo e io vado a preparare i latkes.

Gerusalemme secondo Pilar

“Tornata in ufficio, la domanda di rigore da amici e colleghi è ovvia: “Allora, com’è andata, cosa hai visto, che hai fatto?” La risposta un po’ meno: “niente di che!”… Più che altro mi sono rilassata, anche mentalmente fino al punto d’aver sentito un’apertura interna, un cambiamento di percezione dagli stimoli che mi circondano, verso il mondo intorno a me (non è una pubblicità della Vodafone!).

È difficile riassumere in poche linee quanto ho vissuto. Sarà stato il viaggio in treno fino ad Acco per partecipare a una “tenda per la pace”, un incontro fra arabi e ebrei per proporre delle nuove idee dopo gli scontri delle ultime settimane. Un’incantevole cittadina di mare nettamente divisa fra le due comunità dove il padrone dell’ostello parla delle persone coinvolte nell’evento come quegli della “peace”, come se usando la parola in inglese facesse capire che è una cosa estranea a lui.

Sarà stata l’intensità di un pomeriggio marcato da una parata con persone di tutto il mondo per festeggiare i 60 anni della nascita d’Israele e quando il gruppo di tedeschi passa sventolando la loro bandiera, un bambino accanto a noi grida “Germania, vai al inferno” – c’è tanto da pensare su questa rabbia ereditata.

Sara’ stata la passeggiata a Me’a She’arim. Appena entrati in questo quartiere ultraortodosso, sotto il cartellone che avverte ai turisti di non fotografare e di vestirsi in modo “modesto”, sotto le note di una vecchia canzone proveniente da una radio lontana, bisogna fermarsi per un attimo per capire che non si stia sognando. Sembra di aver fatto un salto nel tempo, la Polonia del XVIII secolo, uomini con capotti neri lucidi e cappelli tondi, famiglie numerosissime (seppure le statistiche dicono che il numero medio di figli è sceso da 9 a 8!) tutti vestiti uguali, dove a volte e’ difficile capire la differenza d’età fra il figlio più grande e la mamma. Come sarà vivere questa religiosità ogni attimo della tua vita, di fronte a un mondo così diverso dall’altra parte della strada?

Tutto quanto ho visto e le sensazione sperimentate mi hanno influenzato profondamente… un pranzo d’amici religiosi (che non ti danno la mano quando ti presenti perché sei donna e loro religiosi); cominciare ad interpretare il linguaggio del corpo quando la lingua è un ostacolo (imparare a dire “non vedi che non capisco una mazza” ai camerieri è fondamentale però!); i canti dello shabbat, la vita quotidiana a Nahlaot, un incontro con il Sangha [una comunità buddista] e l’apprendimento del termine “aimlessness“, gli odori, i sentimenti, le sukkòt [le capanne della festa di capanne], i sapori… questo viaggio mi ha cambiata, mi sento serena, più in contatto con il mondo e con me stessa… sarà la carica emotiva degli eventi descritti? la spiritualità di Gerusalemme o forse i waffle di Babette? Chi lo sa!”

Indicazioni per arrivare al cielo

Siamo in mezzo alle feste ebraiche. Il capodanno, il giorno di kippur, la festa delle capanne e ovviamente tutte intercalate dalle shabbat ogni venerdì sera-sabato. Cosa vuol dire, oltre una paranoia incessante che ne hai dimenticato una e ora che è finita la pasta o la carta igienica il mercato sarà chiuso?

Vuol dire che c’è tanto tempo per fare passeggiate e il cielo di Gerusalemme di notte è spettacolare. Qui, a 850 metri d’altitudine e in cima della catena di montagne che attraversa il paese dal nord al sud, le nuvole passano con una velocità strepitosa. Guardo sù ad apprezzare per un attimo il cielo scurissimo e le stelle brillantissime, prima che arriva una nuvola che sembra illuminata da sé. Dopo un minuto lei continua per la sua strada è rimango nell’intimità del cielo, lontanissimo e nerissimo come sempre. Arriva la prossima e noto invece quant’è vicina. Infatti, anche di giorno c’è una sensazione che quasi quasi ci sei, basta saltare un pochino più in alto, stirarsi sulla punta dei piedi ed eccole; eccoti a farle solletico con le punte delle dita.

Mi chiedo se il cielo non è un fattore della spiritualità forte di questa città. Il cielo, l’abisso o il fondamento dell’assoluto ti fa riflettere su cose più grandi o profonde, mentre l’estrema vicinanza dello stesso cielo da un senso di familiarità, di intimità o di pertinenza.

Le porte al cielo sono molte a Gerusalemme. Una si trova su via Agripas ed è l’entrata al ristorante Mòrdoch. Ragazzi, non potete immaginare minimamente che bontà… Appena ti siedi ti riempiono la tavola di piccole insalate, di sottaceti, di salse piccanti e di pita. Certo che l’humus è buonissimo e la loro zuppa kùbe è conosciuta in ogni angolo del paese. Ma qui vi indirizzo l’attenzione ai ripieni. Peperoni, zucche, foglie di vite e verza ripieni di riso e di salse. Un morso e stai già volando fra le nuvole, due e hai capito il senso del universo, finisci il piatto e il peso colossale ti ripianta ben bene sulla terra!

A Mordoch si fa un’ottima majàdara buona quanto quella della mia ex-padrone di casa, originariamente dalla città di Aleppo. Riso e lenticchie con la cipolla tagliata fina fina e poi soffritta. Vi assicuro una conversione immediata.

La ricetta per il sugo

A una giovane amica in occasione del suo matrimonio

La ricetta per il sugo
(il talismano della felicità)


Gli ingredienti migliori ci sono.
Nella padella già si trova l’olio d’oliva puro
e due spicchi d’aglio dimezzati (longitudinale)
insieme a un peperoncino piccolo piccante rosso pieno.
I pomodori pelati aspettano con pazienza
(cinque minuti in un bagno di acqua molto calda e si pelano da soli)
e un fuoco basso è acceso.

Cambierà il colore dell’aglio.
La forma dei pomodori subirà delle metamorfosi
e
passeranno odori diversi.
Non c’è motivo (
in ebraico, “non c’è gusto/sapore”) di preoccuparsi,
non c’è motivo di aver fretta.
Non c’è motivo di cercare o di decidere
perchè il gusto c’è davanti agli occhi.

Quando godiamo degli odori uno per uno,
quando apprezziamo ogni metaformasi così com’è
e quando cambiamo insieme al sapore
un altro ingrediente c’è
un altro ingrediente è maturo
ed è sempre stato maturo.

Sciuc Mahane Yehuda, Gerusalemme
Tradotta dal
ebraico originale

La vita normale

Mi sembra di non aver niente di interessante da riportare. Faccio la vita normale: mi alzo di mattina e prendo un caffè e un cornetto, vado al mercato, faccio la spesa e le chiamate, lavoro, vedo gli amici. Solo che i cornetti qui sono buonissimi, fatti al burro e si sciolgono in bocca. Mmmm!

Negli ultimi anni hanno cominciato aprire dei caffè proprio dentro il grande mercato. Così prima di comprare il humus e la tehina (salsa di sesamo), la frutta e verdura fresca, i formaggi di capra e le miscele di spezie per cucinare il riso puoi sederti tranquillamente e prendere un afùh (cappucino), una spremuta, un’insalata di citrioli e pomodori spezzati e formaggi freschi.


Spesso faccio una passeggiata nel giardino d’independenza. Mi sdraio su una panchina, con un libro o il diario in mano e la sciacsciùca in pancia, guardo intorno e ascolto gli uccelli.

Gerusalemme città intensa

Israele è un paese con una certa intensità e Gerusalemme ancora di più. Sono arrivato venerdì mattina e ovviamente la nuova casa aveva bisogno di arredamento e di pulizia. Vado allo sciuc insieme al nuovo inquilino (romano, così non dimentico un bel gnente) a comprarci della roba. Ogni persona che vendeva o che comprava, ogni persona in macchina o che passava camminando aveva un senso di urgenza. I clacson suonavano, i venditori annunciavano i prezzi dei loro prodotti e gli altri sembravano tutti giocatori di football americano cercando nella folla qualsiasi apertura per infilarsi a continuare i loro percorsi. Fatta la spesa e torniamo a casa a sistema’.

Poi la sirena. Il tono ha durato un minuto intero e improvvisamente una magia è scesa sulle strade, sulle case, sulle persone. E’ arrivata la Shabbat con il suo silenzio e la sua tranquillità. Gli odori di tante cene pian piano aleggiavano dalle finestre, i suoni dei canti uscivano dalle piccole sinagoghe, le strade e i vicoletti restavano deserti e potevano respirare. Ventiquattro ore senza autobus, con poche macchine, poca gente in giro e tanta pace.

E domenica ricominciamo.

Mi sento come se fosse in qualche fiaba. E’ difficile credere che sia vera quest’ambiente, quest’intensità che pervade tutto, per bene e per male, quest’aria che opprime e che esalta.

Qui faccio una passeggiata nel rione Nahlaòt.